Sono uno scrittore. Roddy Doyle. Uno scrittore irlandese.
Sono un uomo a cui è capitato di essere scrittore. Sono un uomo che ha scelto di essere scrittore.
Sono un uomo di mezza età. Sono un uomo di mezza età a cui è capitato di essere irlandese, un uomo che non è sempre stato di mezza età ma che è sempre stato irlandese. Sono abbastanza vecchio da ricordarmi zone dell’Irlanda che, negli anni Sessanta, non avevano l’elettricità.
Sono un uomo di Dublino.
Sono un uomo di Dublino a cui non piace quasi niente della musica irlandese.
Potrei continuare così a lungo, per pagine e pagine.
Potrei riempire un pessimo libro. Io sono due o tre sostantivi e forse il doppio degli aggettivi.
Nel suo libretto dal titolo Stronzate. Un saggio filosofico, il filosofo Harry G. Frankfurt scrive: «È impossibile che una persona menta se non crede di conoscere la verità. Produrre stronzate non richiede questa convinzione». Se mi allontano dalla fiction, spesso temo di avventurarmi nelle stronzate. Quando scrivo un romanzo o un racconto esamino, e riesamino, ogni parola. Ciascuna è un mattone solido: resta là dove la metto. Quando scrivo non fiction riempio le pagine perché devo o perché sono stato invitato a farlo, di rado perché mi va o perché ne sento il bisogno. Le parole cominciano a scivolare. Io le spingo sulla pagina e spero che restino là e che, con un pizzico di fortuna, in quel caos ci sia qualcosa di non troppo sdolcinato o banale. La mia più grande e, a volte, unica speranza è di cavarmela. Quando racconto storie mi sento sicuro, molto meno quando cerco di catturare la verità. Dopotutto sono uno scrittore irlandese.
Essere irlandesi. La mia strada per Mandalay
Altre stronzate.
Sono uno scrittore che ha perso il padre proprio quando cominciava a pensare, con apprensione, a questo saggio. La sua morte mi ha pervaso di una profonda tristezza, una tristezza più cupa e prolungata di qualunque altra avessi mai provato. Mi ha anche dato un po’ di conforto, ma solo quando scrivo e penso a questo saggio. Adesso sento il forte desiderio di scrivere di mio padre e, tramite lui, di accostarmi al tema dell’identità. Posso fidarmi delle cose che scrivo. Saranno anche stronzate, ma almeno sono stronzate scritte con convinzione.
Mio padre è nato nel 1923 a Dublino. È nato cittadino irlandese. Se fosse nato poco più di un anno prima sarebbe stato suddito britannico. È arrivato a meno di un anno dalla fine della guerra civile. Le vittime non furono tantissime, ma la frattura fu profonda e molto dolorosa. Mio padre è cresciuto su un versante di quella frattura, il versante repubblicano. Perciò era irlandese, ma essere irlandesi era una novità assoluta. Ed è cresciuto fra persone per le quali il nuovo stato non era abbastanza irlandese. La sua era una famiglia numerosa e, a quanto ne so, felice, ma su una cosa regnava il silenzio.
Due fratelli, gli zii di mio padre, avevano combattuto nella guerra civile, l’uno contro l’altro. Uno di loro, Johnny Doyle, schierato con i repubblicani, era morto in maniera molto violenta.
Mio padre si chiamava Rory. Gli hanno dato questo nome perché è nato il giorno del primo anniversario dell’esecuzione del leader repubblicano Rory O’Connor. La faccenda si complica e, spero, diventa più interessante ora che vi dico che lo stesso Rory O’Connor non era sempre stato Rory O’Connor. Aveva scelto la versione gaelica «Rory» del suo nome «Roderick» per esprimere il suo nazionalismo irlandese.
Quel cambio di nome era una dichiarazione d’indipendenza.
Mio padre è nato al Rotunda Maternity Hospital in fondo a O’Connell Street, strada che fino a qualche anno prima si chiamava Sackville Street: anche in questo caso il cambio di nome è stata una dichiarazione. Il General Post Office, o G.P.O., teatro della Rivolta di Pasqua del 1916, è in O’Connell Street. Fu lì che, nelle parole di William Butler Yeats, «ogni cosa è mutata, mutata interamente: una terribile bellezza è nata».
La strada mostrava ancora i segni dei danni inflitti dai bombardamenti britannici del 1916 e dalla più recente guerra civile. L’indipendenza, la rottura dall’Impero britannico, è facile da individuare: il 6 dicembre 1922.
Come si fa a sapere, però, quando finisce una guerra civile? Rory O’Connor era schierato con la parte che perse quella guerra, per cui il nome di mio padre era un piccolo atto eversivo.
Mio padre è nato un anno e due giorni dopo che tre quarti dell’isola dell’Irlanda erano diventati lo «Stato Libero d’Irlanda» ed è morto il 16 marzo di quest’anno, in un luogo chiamato «Repubblica d’Irlanda». È morto in un ospedale a circa cinque chilometri da quello in cui era nato e ha vissuto l’intera vita a Dublino, la capitale. È sempre stato irlandese, ma il significato dell’aggettivo «irlandese» è cambiato e si è alterato, e lui si è portato con sé quelle tendenze e oscillazioni per tutta la vita.
Anche uno dei suoi nipoti si chiama Rory, ma dare questo nome a quel bambino non esprimeva alcun intento eversivo. Quel Rory è nato nel 1991, nello stesso ospedale del nonno, il Rotunda, in fondo a O’Connell Street. Il significato di «irlandese» ha oscillato anche durante la sua vita.
Per buona parte dell’esistenza di mio padre essere irlandesi ha significato essere «non inglesi». Quando un giornalista francese gli chiese se fosse inglese, Samuel Beckett rispose: «Au contraire». Mio padre avrebbe annuito: per lui quella risposta, per quanto buffa e forse assurda, sarebbe stata del tutto sensata. Sospetto che l’assurdità della risposta di Beckett piacerebbe anche a suo nipote, ma lui non coglierebbe il grido di guerra che contiene.
Mio padre Rory è cresciuto in uno stato deciso a non essere inglese. Per molti dei suoi fondatori, il nuovo stato doveva essere agricolo, di lingua gaelica e cattolico. La sua insularità geografica sarebbe diventata anche un’insularità culturale e morale. Per quanto comprensibile, era rischioso. Loro lottavano contro l’affermato ritratto degli irlandesi che li voleva seducenti ma inaffidabili, ottusi, ubriaconi, violenti, impiccioni, incapaci di sostentarsi e, men che meno, di governarsi. La nuova Irlanda sarebbe stata pura. Protestanti ed ebrei sarebbero stati meno irlandesi dei veri irlandesi; Dublino, una città sporca, sarebbe stata equivoca, meno irlandese del resto dell’Irlanda; chi non parlava gaelico sarebbe stato interdetto dagli incarichi di governo. Il calcio e il rugby erano «garrison games», cioè sport stranieri praticati, e lasciati, dalle guarnigioni britanniche. A chi praticava sport gaelici i «garrison games» erano vietati. L’Irlanda avrebbe dovuto tener fede al nuovo ideale agricolo, gaelico, devotamente e incondizionatamente cattolico.
Mio padre viveva in quell’anti-Inghilterra e l’amava – era un patriota: amava essere irlandese molto più di quanto amasse non essere inglese – eppure la sua canzone preferita, il pezzo con cui si esibiva, era The Road to Mandalay (La strada per Mandalay), costruita attorno alle parole del premio Nobel cantore dell’imperialismo britannico Rudyard Kipling.
In stanze piene di fumo, affollate da altra gente cresciuta nella povertà dell’Irlanda degli anni Venti, Trenta, Quaranta e Cinquanta, lui si alzava e cantava a gran voce.
Presso la vecchia pagoda di Moulmein, rivolta verso il mare a est, siede una ragazza birmana, e io so che sta pensando a me,
perché il vento è tra le palme e le campane del tempio dicono:
«Ritorna, soldato britannico, ritorna a Mandalay!»
E, ogni volta, tutti cantavano in coro con lui il ritornello. Irlandesi fieri, uomini e donne, fieri della loro storia comune, fieri della lotta che li aveva resi irlandesi, gridavano quelle parole al soffitto:
Ritorna a Mandalay,
dove stava la vecchia flottiglia
non senti lo sciabordio delle pale da Rangoon a Mandalay?
Sulla strada per Mandalay
dove giocano i pesci volanti
e l’alba si leva come un tuono dalla Cina oltre la baia!
Ebbene sì, mista al fumo di sigaretta e alla musica c’era ironia nell’aria. Eppure c’era anche una grande gioia, un amore per il mondo oltre l’Irlanda e la consapevolezza che molti dei soldati britannici che avevano occupato Rangoon e Mandalay per l’Impero erano, in realtà, irlandesi, compreso lo zio di mio padre che in seguito combatté nella guerra civile. Però non sapremo mai se la ragazza birmana della canzone si strugge per un uomo di Dublino, di Cork, di Galway, o per un uomo di Liverpool o di Glasgow.
Ovviamente essere irlandesi era, ed è, più complesso di quanto suggerisca uno sguardo alla parola o a una cartina geografica.
Per gran parte della vita di mio padre, l’esponente di spicco della politica irlandese è stato Éamon de Valera. Il giorno di San Patrizio del 1943, quando mio padre aveva diciannove anni e faceva l’apprendista in una stamperia, e il resto d’Europa era in guerra, il Taoiseach d’Irlanda de Valera, cioè il primo ministro, tenne un discorso radiofonico al popolo irlandese. Eccone un estratto:
«L’Irlanda ideale che avremo, l’Irlanda che abbiamo sognato, sarà la casa di un popolo che dà importanza alla ricchezza materiale solo in quanto presupposto di una vita giusta, di un popolo che, pago di un benessere frugale, dedica il suo tempo libero alle cose dello spirito: una terra la cui campagna sarà rischiarata da fattorie accoglienti, i cui campi e i cui paesini saranno resi gioiosi dai rumori dell’operosità, dalla vivacità di bambini vigorosi, dalle gare di ragazzi atletici e dalle risate di ragazze nubili felici, i cui focolari saranno teatro della saggezza di una vecchiaia serena. La casa, in breve, di un popolo che vive la vita come Dio desidera che gli uomini la vivano».
L’Irlanda ideale di de Valera era un luogo di «fattorie», «campi» e «paesini». Non c’erano cittadine e città. A quanto pare, Dio non desiderava che gli uomini vivessero in città. Nell’Irlanda ideale i ragazzi dovevano essere «atletici», le ragazze «felici» e nubili, la vecchiaia «serena». Ma come potevano tutti i ragazzi essere atletici? Quale legge avrebbe garantito la felicità alle ragazze? E come si fa ad aspettare con serenità la demenza e l’incontinenza che avanzano? Questi aggettivi… «atletico», «accogliente», «vigoroso», «felice», «frugale», «giusto». Visto quanto stava accadendo in Europa, parole come «atletico» e «vigoroso», presentate come simboli dell’ideale, sono quasi sinistre, e folli. E il termine «rischiarato»… da quale finestra guardava fuori de Valera mentre scriveva il discorso? In Irlanda piove. Se non piove sta per piovere. In Irlanda il chiarore non è un ideale: è un evento meteorologico sporadico, una rarità fra un acquazzone e l’altro. Ma è proprio questo il problema degli ideali, no? La realtà ci piove su. Se siamo fortunati.
Quando il primo ministro pronunciò quelle parole, mio padre aveva diciannove anni. Era un acceso sostenitore di de Valera e del suo partito politico, il Fianna Fáil. Suo padre, Tim Doyle, l’uomo che l’aveva chiamato «Rory», aveva contribuito a fondare quel partito e mio padre ne è stato un iscritto attivo sin da piccolo e fino alla morte. Però dubito che avrebbe approvato l’ideale di de Valera o che lo avrebbe voluto. Non era particolarmente atletico, amava Dublino e la seriosità delle riunioni attorno ai focolari gli avrebbe dato il voltastomaco o lo avrebbe fatto scoppiare a ridere.
«Chi resta intrappolato nel sogno dell’altro è fottuto» ha detto Gilles Deleuze.
«Se sai cantare The Road to Mandalay no» avrebbe potuto replicare mio padre.
Con il tempo l’Irlanda ideale è cambiata. Negli anni Sessanta si è girata e ha guardato verso l’Europa. Negli anni Ottanta gli irlandesi erano ormai europei. L’insularità non era più una virtù. Siamo stati bravi europei, poi pessimi europei, e adesso vogliamo tornare a essere bravi europei.
Siamo stati un popolo spirituale, ciascuno di noi un poeta o un musicista. Poi siamo stati una terra di banchieri e imprenditori, con una popolazione giovane capace di guardare nelle viscere di un computer e dire: «Facile». Siamo stati un clamoroso successo, l’unico successo. Dominava una nuova insularità: «Abbiamo moltissimo da offrire al mondo, ma il mondo non ha nulla da offrirci». Adesso, a quanto pare, siamo di nuovo poeti. Almeno finché i prezzi delle case non ricominceranno a salire.
Da non molto ci siamo innamorati della regina d’Inghilterra.
«È inglese, M. Beckett?»
«Je ne sais pas».
Tre anni fa la regina è venuta nella Repubblica d’Irlanda, prima monarca britannica a visitare quella parte dell’isola dal 1911. Ha posato una corona di fiori sul memoriale degli uomini e delle donne morti durante la guerra d’indipendenza. Mio padre si è commosso moltissimo, ed è stato colto un po’ di sorpresa. Suo nipote non se n’è quasi accorto. Lui non è cresciuto nella non-Inghilterra. Non credo che sia cresciuto in un’Irlanda necessariamente migliore, solo diversa.
Ogni volta che lascio il mio paese divento subito irlandese. Ho bisogno del passaporto. E il mio essere irlandese è uno dei motivi per cui oggi sono qui. Qui non sono soltanto uno scrittore: sono uno scrittore irlandese. Eppure non so bene cosa significhi, anzi, se addirittura significhi qualcosa. Sono piuttosto soddisfatto di essere irlandese, ma detesto essere «irlandese». L’adoro e lo combatto.
Ecco dove penso si possa trovare l’identità, nella lotta all’identità. O nella lotta all’identità imposta. Stavo scrivendo il mio nono romanzo, credo, quando mi sono reso conto che era proprio quello che stavo facendo: lottavo contro la mia identità, o contro quella che altri avevano cercato di impormi, lottavo contro l’ideale. Lottavo contro quello che altri si aspettavano che fossi e scrivevo con gioia quello che altri consideravano non irlandese, o meno irlandese o più dublinese che irlandese.
I miei libri sono popolati di brave persone che parlano – molto – e amano, ridono e fanno ridere chi le circonda, e di famiglie che si destreggiano e se la cavano senza l’intervento della chiesa cattolica. Nelle mie storie la religione non ha molto spazio. La campagna, la terra al di fuori di Dublino, è visitata di rado.
Ai miei personaggi l’aria troppo fresca non piace e «Homestead» è una marca di marmellata.
Alle pagine dei miei romanzi ho imposto la mia personale definizione di ciò che significa essere irlandesi perché lo volevo. Ricordo di aver riso quando mi sono accorto di poterlo fare, e di riuscirci. E l’ho fatto anche perché ne avevo bisogno.
Il mio primo romanzo, I Commitments, parla di un gruppo di ragazzi che hanno voglia di suonare e scelgono un genere distante dalla musica irlandese, il soul dei neri d’America. Se ne appropriano e lo rendono irlandese.
Lo rendono dublinese.
Danno alla musica l’arguzia
e la geografia della città.
Nel 1991, quando è uscito l’adattamento cinematografico del romanzo, un critico ha commentato che avrebbe scoraggiato i turisti dal visitare l’Irlanda. Le immagini, i suoni, la lingua, la sporcizia – la gioia – non erano irlandesi.
A distanza di ventitré anni, molti pensano che «Mustang Sally» sia una canzone tradizionale irlandese. Avevo sbagliato tutto… o forse avevo fatto centro. «Mustang Sally» era la mia strada per Mandalay. Stavo facendo quello che aveva fatto mio padre. Accettavo quanto mi era stato dato, e lo rifiutavo. Sfruttavo lo scontro fra l’identità personale e l’identità nazionale.
Ero irlandese alle mie, instabili, condizioni.
Sono uno scrittore irlandese che forse si sta avventurando nelle stronzate.
Perciò mi fermo.
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